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2010.11a

Introduzione

di Davide Rondoni

“Siamo senza mai essere” dice un verso tra quelli che più mi colpiscono in questa raccolta, fluviale, magmatica e piena di cose diversissime. Sono parole terribili, dove la poesia arriva a esprimere – con apparente semplicità – il dramma assoluto in cui siamo, tutti. 
La scrittura – che in queste pagine troviamo espressa in molti dei suoi modi e dei suoi motivi – è forse segno d’un deficit, d’un oscuro indebitamento? Insomma, si scrive forse perché talvolta emerge in modo chiaro che “siamo senza mai essere” davvero?

Certo, il limite, l’esperienza che ogni uomo e donna seri di fronte alla vita compiono ogni volta che li punge il dolore, la fatica – ma anche la gioia, il piacere, se no perché si direbbe: “sono felice da morire”, “mi piaci da impazzire”? – è la nuda verità. È lo stigma del nostro essere creature finite. L’essere non ci appartiene, non dipende da noi. E la vita con i suoi movimenti, le sue asperità, le sue dolcissime sorprese ce lo ricorda sempre….
In una delle prime poesie qui appare un cancello. Come segno di una soglia, di una fessura: la poesia cerca di oltrepassare il darsi immediato della vita –senza negarlo, senza negare mai le apparenze, loro le tenui e terribili apparenze – per toccare la verità. E la verità, appunto, è il grido di quel limite, che si esprime in queste come in tante pagine sparse dagli uomini come nostalgia dolce davanti al tempo che fu, come dolore, come incanto per qualcosa o qualcuno che non è in nostro potere e ci fa tremare. “Tu passi/ come un pugno di sale negli occhi” dice un verso qui, che è dolce e aspro come la vita. Anche il delicatissimo Tito cane spaziale di un racconto poetico e struggente è un angelo sul nostro limite.

E qui viene il bello e il duro della poesia sempre, e della scrittura quando mette a fuoco la vita. Qui è il punto in cui cade nel nulla l’esercizio spesso vanaglorioso di aspiranti poeti che nessun lavoro compiono davvero se non l’esibizione di propri pensierini e resta invece – per quanto selvatico e errante – il lavoro poetico pericoloso e affaticato di alcuni qui contenuti. Dare voce al limite, all’esperienza dura e fantastica che si pronuncia in quel “siamo senza mai essere” cosa è? Si tratta di dare voce a una specie di condanna infinita, di insussistenza maledetta del vivere, di dispendio senza frutto? Scrivere è solo dare voce una sentenza che ci portiamo nel sangue di vanità? Sì, lo è. Ma è anche – come una bava d’alba che ferisce la notte piena – il segno che questo limite non ci contiene del tutto, urge in noi qualcosa che lo preme, lo patisce, lo brucia. Qualcosa che è cosciente del limite, evidentemente è più grande di quanto è contenuto in quel limite. In noi sta questo paradosso, che è il motore di ogni grande opera di poesia, da Dante a Leopardi a Pascoli. Fino al più oscuro dei ragazzetti che inizia a segnare ora i suoi fogli o il suo elettronico taccuino. Ci confondiamo “quasi col nulla” secondo una espressione del genio di Recanati. Ma il nulla che avvertiamo premere ovunque, e specialmente lì, nella nostra capacità di compiere il male, lo spreco, l’indifferenza e il diniego, ecco il nulla è contrastato e – tremando, timidamente direi – negato dalla presenza del “quasi”. Che non lo nega, no, ma ne toglie la velenosa onnipotenza, ne brucia con una specie di oscura impalpabile eleganza la protervia negatrice. La poesia nasce da un “quasi nulla”, ne è grido, canto a volte, ne è dispersa, dura testimonianza. Anche qui, tra pagine di buona volontà e alcuni accenni d’arte vera, accade ancora, e ne sono grato.