logo
sfondo-20
2012.13a

Introduzione

di Fabrizio Battesta

Devo dire, senza paura di venir smentito, che la parola “poesia” mi ricorda le cantilenanti noiose strofe, i suoni assurdi, i brani spezzati, le parole “strane” per me senza senso messe lì per caso, di quando ero alunno alle scuole elementari. 
Una perdita di tempo, una tortura alla mia mente e una sfida alla mia memoria che non comprendevo; c’erano già le tabelline, non bastavano? 
Come non comprendevo, allora, questo infierire su una giovane vita che cercava con tutte le forze di liberarsi dai ferrei lacci dei compiti per casa, tra i quali - inevitabili - c’erano le poesie e le tabelline, per fare cose veramente importanti come giocare, leggere racconti di avventura, DISEGNARE! 
È naturale, pertanto, che io non ami la poesia e che guardi con sospetto la matematica... al punto che il semplice vedere un libretto di poesie mi porta a ignorarlo risolutamente, mentre mi trovo spesso a benedire il fato per l’invenzione della calcolatrice elettronica. 
Ma nella vita, è noto che non bisogna mai dire mai.
A voi sarà capitato spesso, a me invece capita raramente ma è successo che il Signor Vincenzo Zollo mi abbia chiesto, con estremo dispregio del pericolo - visti i risultati che potrebbero esserci -, di scrivere una introduzione a questo libro di poesie e racconti. 
Ho guardato il Signor Zollo con sincera perplessità. 
Pensavo di non aver capito bene. 
Poi mi sono detto: -Ci sono persone che cagionano danni per molto meno, scrivere una introduzione non sarà proprio una carneficina! e ho incoscientemente accettato. 
Una volta arrivata l'e-mail contente i testi, li ho lasciati per un po’ di tempo a macerare, poi mi sono deciso finalmente a leggerli.
A questo punto, in modo assai incomprensibile alla mia mente, è successo qualcosa. 
Mi spiego meglio...quando uno si trova per forza dinanzi a una serie di paroline che speranzose lo guardano con gli occhioni languidi, è come avere la sindrome di Ménière e trovarsi con il paracadute in un aereo che precipita: o si salta o si salta. Io cerco, insomma, di svicolare ma, come si suol dire, noblesse oblige.
E allora mi sono buttato. 
Però prima, incuriosito, ho cominciato a fare autoanalisi per cercare di capire perché non amassi né la poesia (né la matematica). 
Dopo innumerevoli sforzi, che invito voi tutti ad immaginare, ci sono riuscito, credo. 
Non amo la poesia perché obbliga a scendere nel profondo claustrofobico dell’anima e cercare negli angoli bui dei sentimenti...non amo la matematica, perché essa cerca di mettere tutto in ordine, sempre, con furbizia, logica e intelligenza. Punto.
Però mi trovo a pensare che c’è una relazione tra la poesia e quello che so fare meglio, disegnare. Mi son detto, se traduci la poesia in un disegno vedi subito che la scintilla, generata dai sentimenti, che sprizza veloce dal tuo pensiero attraverso una penna, una matita o un bulino o un pennello sul foglio bianco che attende paziente, è la stessa. L’unica differenza è il risultato. È un segno diverso, una serie di linee sinuose intercalate da punti e segmenti come la scrittura, ma può essere anche un segno alla Morandi. Penso a “Il Poggio al mattino”; raffinato, semplice. Pudicamente incomprensibile se ti avvicini troppo, geometrico, matematico! Anche a Giorgio Morandi non andava di “aprirsi troppo” evidentemente, memorizzo soddisfatto. Oppure a Escher altrettanto raffinato che però nascondeva i suoi sentimenti nella minuziosa, surreale complessità delle sue incisioni che, viste da vicino sembrano chiare ma alla prima zumata a campo lungo si camuffano, si confondono in una babele di elementi decorativi, come le alici quando cercano di fuggire dalle zanne fameliche del barracuda. O come nel “I mangiatori di patate” di quel sornione di van Gogh che con questo dipinto tanto ha fatto arrabbiare l’amico van Rappard. Le figure nascoste, come i pensieri nascosti, ovattati. Vedi una famiglia che al lume di una lampada mangia patate e poi, se guardi bene, vedi che il numero dei personaggi presenti è maggiore, si nascondono. Ma per fare questo devi entrare in contatto con l’opera, la devi toccare, girare, capovolgere. Anche con la poesia devi apprezzare i caratteri tipografici, gli a capo, l’interlinea, i capilettera, annusare l’odore della carta e dell’inchiostro, a volte la faccenda si rivela ardua con il computer o il tablet ma la fantasia non l’abbiamo mica per far da zavorra alla testa! direbbe qualcuno. Alcune volte è il pensiero che si nasconde, altre volte è l’autore dietro macchie di luce impossibili immerse in situazioni oscure, che vorrebbero dire ma non osano o esplodono luminescenti. Potrei continuare all’infinito per convincermi dell’importanza della poesia ma in realtà, forse, c’è solo il timore di trovare tra queste paroline qualche cosa di impossibile da contenere, e qualche cosa che non saprei gestire. 
Eh sì, brutta faccenda la poesia, roba da sentimenti e i sentimenti sono cosa dura, pericolosa, da tener stretta, perché se la liberi ti scivola fra le dita del cuore e, impotente, la vedi svanire nell’immensità del buio o della luce e può renderti vulnerabile. 
Non son tempi da poesia, questi. Troppa meschinità, superficialità, arroganza, ignoranza, troppa ricchezza materiale, pochissima fede e la poesia è fede nell’uomo, ti porta ad aver fiducia in lui, a patire con lui; a saper accettare i suoi limiti. 
Difficile. 
Questa galassia di sentimenti è troppo? È una questione di abitudine. 
Ci si abitua a tutto, dicono alcuni. 
Forse è vero, ma soltanto finché non ci si trova davanti quelle paroline dagli occhioni languidi, che sperano in te, nella tua capacità di comprenderle e di comprendere i loro sentimenti nascosti o appena timidamente accennati, le loro verità urlate o bisbigliate. 
Perché il problema è tutto lì: aprirsi e non avere paura del vuoto; ammesso che la sindrome di Ménière sia d’accordo.