Introduzione
di Eugenio Finardi
La bellezza può essere miraggio e ribellione. A volte si presenta con le forme della delicatezza, della dolcezza e del bisogno di essere riconosciuti. L’esistente non è sempre meraviglioso.
Crisi di coscienza e tensioni interiori aprono la strada alla ricerca del sublime o della perdizione definitiva.
Il bello rimanda all’immagine dell’allegria e della leggerezza, è l’assunto di Immanuel Kant nel suo piccolo trattato sul Bello e sul Sublime; ma il Sublime è spaventoso e tetro. Il terrificante è altezza ed elevazione, dove l’anima si consola e si placa nello smarrimento, nella verità di un assoluto che non ammette più il ritorno ad un infimo stato di quiete, ad una condizione di tranquillità che non è accettabile.
La poesia non media: non mediano i poeti. Assoluta e eccessiva è l’esperienza di chi intraprende il cammino della bellezza; specie quando tutt’intorno e mediocrità, tremore e paura di essere pienamente. Eroico è chi abbraccia la morte come giusta causa di salvezza, di libertà e di scandalo. Scandalo ed eroismo sono stati i motivi ricorrenti dei componimenti dei lirici greci, da Saffo ad Archiloco, a Teognide che hanno saputo rappresentare meglio di tutti le virtù dell’uomo e i suoi vizi senza indulgere verso idealizzazioni o rappresentazioni indecenti. Ma eroica è anche la rinuncia quando non è viltà. Eroico è il perdono: “Il faut, voyez-vous, nous pardonner le choses”, è un verso di Verlaine che mi ha sempre impressionato per la forza emotiva che trasmette: “Bisogna, vedete, perdonarci le cose” potrebbe essere un’ipotesi di traduzione: dove per cose si intendono “gli errori”.
Bisogna perdonarsi le cose ma anche denunciarle, anche ricordarle per la loro gravità, per il male che hanno recato gratuitamente ad un’umanità inerme e spaventata da tanta folle aggressione.
- “NON DIMENTICATE!”/ Non chiedetevi dov’è Dio e perché permetta questo, / Chiedetevi piuttosto: dov’è finito l’uomo? – è quanto scrive uno dei poeti di questa raccolta antologica, ricordando il dramma della deportazione nazista nei campi di concentramento. Si possono riconoscere echi di sofferenza già celebrati da Ungaretti e, in maniera più tragica, da Primo Levi. Echi, solamente, soffi di umanità; poiché sono certo che le parole di questo poeta sono vere, dettate probabilmente dal dolore che tiene chiuso da tanto tempo in seno, per un suo intimo segreto: dove rabbia e vergogna si accendono e si confondono inspiegabilmente. Ma adesso che il suo grido ha trovato una via di uscita, ritengo che possa riscattare tanti altri che nascondono in seno quel suo stesso dolore.
La poesia non ha bisogno di definizioni o di classificazioni. “El sueno della razon produce monstruos”, scriveva Goya nel suo famoso dipinto. E’ un monito, un invito a non dimenticarsi di essere vivi. Ma vivi si è per gli altri: vivere solo per se stessi è come essere morti per il resto dell’umanità. La parola assume valore profondo e alto quando è emessa perché raggiunga un altro animo, vicino o lontano dal mio, perché tra me e un altro ci sia un legame profondo, sincero. Dedicare un’antologia ad una nuova generazione di poeti è una necessità per chi non può rinunciare alla bellezza di un legame con chi si fa portatore di rinnovate e valenti visioni. La parola scelta vale più di ogni proclama pubblicitario lanciato solo per impressionare gli animi più corruttibili. La poesia si fa artefice di verità se c’è chi di questa verità ha perennemente bisogno.